Femminicidi. Quando le leggi non bastano e la prevenzione è difficile

E’ difficile celebrare in Italia il 25 novembre, dopo gli ultimi fatti accaduti pochi giorni fa. Una giornata che è per l’Onu l’inizio di un percorso di 16 giorni di attivismo contro la violenza sulle donne, fino al 10 dicembre, giornata mondiale dei Diritti umani.

Dall’inizio di questo anno, 109 sono le vittime, in grande maggioranza uccise in ambito familiare. Gli ultimi casi di pochi giorni fa. A Sassuolo: Elisa Mulas, i suoi due figli (Sami e Ismael) e la loro nonna Simonetta; una intera famiglia sterminata dal padre dei due bambini. Nel viterbese un bambino di dieci anni, Matias, è assassinato dal padre per colpire la moglie. A Reggio Emilia, Juana una donna peruviana è uccisa dal suo ex compagno, Mirko Genco, più volte denunciato, condannato… ed era figlio di una donna vittima di femminicidio. Eppure abbiamo un corpo di leggi e provvedimenti sulle violenze di genere tra i più avanzati in Europa. Ci sono i Centri antiviolenza, nei Comuni e negli ospedali, case rifugio, strutture protette…

Il fenomeno è generalizzato, trasversale. Anche se una frontiera delicata è quella delle famiglie immigrate, dove emergono situazioni conflittuali serie (ricordiamo il caso della ragazza pakistana Samam). A Parigi, i cortei contro la violenza sono aperti da alcune ragazze adolescenti che raccontano delle nonne che hanno subito un matrimonio forzato, o delle madri che non possono separarsi e divorziare. Il quadro è comunque complesso e riguarda le famiglie allargate, l’affidamento dei figli…l’incapacità di uomini di accettare la fine di un rapporto. Non esistono separazioni “tranquille” e i conflitti spesso non sono prevedibili. Se ne parlò a Manfredonia alcuni anni fa a proposito di affidamento e adozione, per una giustizia “mite” e inclusiva, fatta di incontri mediazioni, compromessi. Un protocollo di intesa tra Tribunale per i minorenni, Procura e Comune stabiliva regole per mettere insieme i pezzi staccati, prefigurando sempre un mosaico, un puzzle possibile. Un lavoro delicato che si doveva avvalere di professionisti dei servizi sociali e sanitari,  per seguire, guidare, vigilare.

Una volta ammesso che la repressione non è sufficiente e le misure (allontanamento, divieti vari…) non portano in molti casi alla dissuasione… Che fare? Come costruire una cultura che sradichi la sopraffazione maschile. C’è una indagine sconvolgente del Senato e dice che su 200 casi di femminicidi, dal 2017 al 1019, circa il 70% delle donne non aveva denunciato e nemmeno parlato con parenti, amiche… Forse per paura? Per la diffidenza che avrebbero trovato intorno? “Com’eri vestita?”, una mostra organizzata dall’Università di Foggia tre anni fa. “Com’eri vestita?”, la domanda che molti si fanno, senza pronunciarla apertamente. Come se l’abbigliamento potesse scatenare lo stupro.

Le violenze, anche quelle estreme, sono precedute da comportamenti che non vengono valutati adeguatamente dalle stesse vittime. E quando ci sono i bambini? Poniamoci il problema di quello che accade nella mente di essi quando assistono quotidianamente a scene di maltrattamento: parole, immagini, gesti, espressioni… Una cornice cognitiva che si forma quando ancora non parlano.

Crescendo non useranno la lingua, all’interno di quella cornice? Ancor più se non trovano persone in grado di aiutarli a superare quel trauma? Ecco perché serve la scuola (dal nido e dalla materna in poi): la vicinanza, la normalità degli incontri, i contatti quotidiani, confusi, semplici… maschietti e femminucce a fianco a fianco, giocano, mangiano insieme, fanno i compiti, si aiutano, bisticciano, un universo di parole, gesti, sguardi, dispetti… che gli insegnanti devono ascoltare, vedere, sorvegliare… e poi i racconti, i disegni, che i bambini sono in grado di costruire. Sono i momenti informali quelli più importanti: come le piazze, le strade, il mercato. Il lungomare per passeggiare, fare footing… luoghi dove si recuperano energie e spinte vitali e che vanno difesi, sorvegliati, illuminati.

Il dottor Franco Mancini, caro amico e mio medico di famiglia, deceduto un paio di anni fa, mi raccontava che molte donne anziane gli parlavano di situazioni difficili, specie in aree residenziali periferiche, nelle lunghe giornate invernali, quando i mariti non uscivano e abusavano di qualche bicchiere di vino… E ora che cosa è accaduto (e accade) con il Covid e il confinamento? Si parla di violenze domestiche cresciute, come una “pandemia silente“.

A cura di Paolo Cascavilla, fonte: futuriparalleli.it

Redazione

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