Stato Donna, 13 settembre 2022. “Il caso in questione è un esempio di diversi tipi di violenza: fisica, per i maltrattamenti e la reclusione della vittima; psicologica, per la disumanizzazione e la costrizione in stato di schiavitù; economica per lo sfruttamento e sicuramente l’appropriazione indebita dei beni della donna”.
A sostenerlo è la docente di sociologia dell’Università di Perugia, Isabella Corvino, interpellata dall’Ansa a proposito della donna che è stata tenuta segregata in un tugurio per 22 anni dal fratello e dalla cognata. Il fatto è avvenuto a pochi chilometri da Bojano, in Molise, una convivenza iniziata nel 1995 e poi trasformatasi in prigionia. Ha vissuto in una stanza accessibile da scala a chiocciola esterna che solo da fuori era possibile aprire, nessuna cura medica, qualche volta dal parrucchiere, senza riscaldamento, senza mai fare due chiacchiere con nessuno. Un racconto da brividi, il suo, non è uscita nemmeno per andare sulla tomba del marito.
Dopo 22 anni però una segnalazione è arrivata ai carabinieri che hanno effettuato un sopralluogo nell’abitazione e verificato la drammaticità della vicenda.
“Nell’immaginario comune- sostiene la docente- nonostante sia evidente qualcosa di diverso, la famiglia rimane un ambiente collaborativo in cui il supporto e il mutuo aiuto rimangono il collante fondamentale. Non a caso anche in politica spesso si utilizza il tema per motivi strumentali senza far emergere quanta violenza invece si consumi all’interno delle abitazioni private.
Quando i carnefici sono familiari, proprio in virtù delle narrazioni sulla famiglia, appare molto più difficile ribellarsi e denunciare. La donna protagonista di questo caso di cronaca afferma di aver più volte cercato aiuto, anche chi avrebbe dovuto denunciare ha preferito rimanere fuori da una faccenda privata”.
Secondo la docente “le regole di questo spazio sociale sono spesso diverse da quelle dello spazio pubblico; purtroppo alcuni tipi di vulnerabilità come quella emotiva ed economica possono essere strumentalizzati avviando una spirale di violenza che raggiunti determinati livelli sembra impossibile da disinnescare”.
“La Convenzione di Istanbul – aggiunge – nell’art. 12 prevede il dovere di ‘adottare le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini’. Per prevenire gli abusi familiari bisogna investire sulla cultura, sull’istruzione; molto può fare il legislatore, ma non è sicuramente sufficiente investire in strumenti di sicurezza diretta”.
(In copertina una foto di repertorio, nel testo le immagini dei Carabinieri di Campobasso sul luogo dove la donna ha vissuto)
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