Quei giorni con mia nonna, che mi ha insegnato l’amore e la libertà

Stato Donna, 20 novembre 2022. Mi guardava attraverso la sfoglia che faceva solo per me, che non la volevo troppo trasparente perché mi piaceva quella callosità sotto ai denti. Trovare ogni tanto una consistenza differente da masticare mi dava gusto. Seguivo attenta il coltello affilatissimo che non mi era permesso neanche di spostare sul tavolo, mentre tagliava veloce la sfoglia ripiegata e poi, con le mani intinte nella farina, la sollevava e la faceva cadere sul marmo del tavolo di lavoro. Li apriva, quei maltagliati, e mentre di là, sulla stufa sobbolliva la minestra di fagioli, io le giravo intorno, incantata.

La osservavo mentre si puliva le mani nel grembiule e passava veloce davanti allo specchio perché era arrivato il postino che non bussava mai, ma appariva alla finestra e c’era questo scambio veloce. Una lettera o una bolletta in cambio di un caffè caldo. E una chiacchiera ed un sorriso. “Che profumo” diceva lui ogni giorno e ogni giorno andava via con un pezzetto di ciambella, quella metà bianca e metà al cioccolato che cuoceva in quella pentola che si attaccava alla corrente e che veniva gelosamente custodita nello sgabuzzino in fondo alla casa, dove c’era qualunque cosa da mangiare e si intuiva che aveva visto la guerra e aveva paura di rimanere senza scorte e ora la capisco meglio perché mia madre, la sua prima figlia, era nata subito dopo e la paura era ancora lì.

Come i soldati, con i quali la sua bimba era cresciuta, mangiando cioccolata a pezzi e cotognata a dadini che anche ora, quando la vede sui giornali, le si cambia il colore degli occhi. Diventano cupi.

E anche se era la fine di giugno e faceva caldo, quel caldo umido che mi arricciava i capelli e che non si riusciva a combattere, in quel pezzo di Pianura Padana che un tempo era stata piena di paludi, ci sedevamo a tavola quando arrivava il nonno e mangiavamo il brodo di fagioli e per me era una meraviglia e non l’ho più mangiato così buono. Come il baccalà, il bartagnin, che si scioglieva in bocca e io ci provo, lo compro e lo metto nell’acqua e lo curo, e lo risciacquo e poi lo faccio cuocere lentamente, molto lentamente.

E viene buono, certo, ma quello di mia nonna non era buono. Era un abbraccio, una carezza sulla guancia, un sorriso. Una battuta ironica e uno sguardo che diceva tutto. C’era un mondo, dentro. Che io mi porto dietro, come un piccolo bagaglio a mano che non occupa spazio, ma aleggia intorno a me sempre e mi riscalda, mi coccola, mi consola e mi fa compagnia. E fa casa, ovunque.

La casa della torre. Dove scappavo a giugno, quando finivo la scuola. Dove aspettavo, la mattina, che lei tornasse dal lavoro, che era un lavoro duro, sempre in piedi, e la sera, davanti alla televisione si spalmava la crema sulle gambe e poi il Voltaren sulle ginocchia. Il Voltarèn, come lo chiamava lei. E anche oggi, sentirne l’odore mi fa nostalgia, e tenerezza verso di lei e verso di me, orfana di quelle attenzioni che a volte, anche da adulto, vorresti. Come quando il pomeriggio, al tramonto, dopo la doccia prendevamo la bicicletta e andavamo a trovare le sue amiche. Lei davanti, mi faceva strada e si voltava a vedere se rimanevo “da parte”, ma non troppo per non cadere nei canali che ancora oggi mi mettono pensiero.

E percorrevamo certi viali di platani, con i tronchi bianchi e lisci, che poi in inverno provavo a riprodurre nei disegni che Suor Giovanna ci faceva fare il sabato, quando ci si parlava di emozioni e sentimenti senza dircelo, ma imparando a memoria le poesie di Giovanni Pascoli e per me, che l’Emilia e la Romagna erano la stessa cosa e le lotte tra i tortellini e i cappelletti non avevano senso, quei platani erano ricordi e promesse, nello stesso tempo. Perché a giugno sarei salita di nuovo, e di nuovo sarei andata in giro con lei, dalle sue amiche. A bere il karkadè e a sentir parlare delle loro vite, dei figli, dei mariti, di uomini, tra risate ed indulgenza, ironia ed affetto.

Con amore. E rispetto. Per se stesse, prima di tutto. Consapevoli e libere. Autonome, ma contente di essere in coppia. Rispettate e riconosciute. Nella fatica del quotidiano, nel sacrificio di chi non dice di no a costo di far notte per farti contento, nella cura di chi non dice mai “arrangiati”. Nella bellezza di una piega casalinga o di una corsa dalla parrucchiera, quando si poteva. Nel rossetto rosso, sempre nella borsa, quella a mano, con dentro un fazzoletto a fiorellini stirato perfettamente e piegato a triangolo, che un paio li tengo nel cassetto della mia biancheria e mi intenerisco, ogni volta.

Nella meraviglia di quelle pantofoline di lana rossa, fatte a mano, con la suola di feltro che per fortuna il piede non mi è mai cresciuto e le uso ancora, in inverno. Come una reliquia, o una cosa preziosa che Louboutin si offenderebbe forse, ma forse no. Perché ce l’avrà anche lui nel cuore una nonna che gli ha insegnato qualcosa. Io, ad esempio, con lei ho respirato la libertà.

Simonetta Molinaro, 20 novembre 2022

 

 

 

 

 

Simonetta Molinaro

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