Foto: donne.it

È nello spazio fisico e metafisico che passa tra la teoria e la pratica che inciampiamo.

È esattamente lì che da qualche parte il meccanismo si inceppa e teorie modernissime e auspicabili si cristallizzano su pagine che rimarranno quasi intonse su libri scritti da donne, che nessuno leggerà mai se non altre donne stesse, che in una specie di catena di Sant’Antonio della sorellanza si passeranno titoli e nomi di autrici.

Pagine che spiegano l’assoluta necessità di far entrare le donne nel mondo del lavoro con le stesse opportunità, gli stessi compiti, le stesse prospettive, le stesse retribuzioni dei colleghi maschi. Pagine che incitano alla liberazione sessuale della donna.

Pagine piene di parole che raccontano, informano, descrivono, lamentano, stigmatizzano, ricordano, offendono, spiegano, consigliano, accusano. 

Parole che invitano a riflettere, a cambiare, a sostenere, a diffondere, a condividere.

Che parole sono? Parole che spingono al confronto oppure parole che evocano crisi maschili e divisioni perché scritte da donne solo per le donne? Come vengono percepite? Riescono a trasmettere quei messaggi che vogliono veicolare o i più ci leggono solo “tremate tremate le streghe son tornate” o “uomo carogna ritorna nella fogna”?

Me lo chiedo da quando ho iniziato ad avvicinarmi alla questione femminile alle scuole medie. Perché la professoressa era dimidiata, si capiva.

Da una parte l’assoluta diligente necessità dell’educatrice, in una classe solo femminile, la sezione H. Lei, madre, nonna, lavoratrice. Penso sentisse forte il peso della responsabilità di insegnarci l’indipendenza, la libertà. Di spingerci a studiare, a sapere, a non fermarci. Dall’altro lato era comunque una donna di sessant’anni, cresciuta in una cultura patriarcale dalla quale cercava di prendere le distanze ma senza rinnegarla completamente, perché forse sola a combattere.

E poi, faceva i conti con quel capitolo odioso. La letteratura femminile. Tipo un ghetto. Le autrici, non accanto agli autori con pari dignità, ma in un capitolo da sole.

Ce l’ho ancora quell’antologia a casa, da qualche parte.

Prendeva però le distanze la prof da certi atteggiamenti e alle volte lo faceva anche nell’intervallo tra un’ora e l’altra, dalla soglia della porta mentre fumava una sigaretta nel corridoio e intanto chiacchierava con i colleghi e le colleghe, tutti fumatori e fumatrici, che ancora non possedevamo certe consapevolezze. Mi ricordo bene.

Sapete invece cosa non mi sovviene? L’odio generico. Scene di lotte non di classe ma di genere. La prof parlava e io, che le parole dopo quarantatré anni magari mi sfuggono, rivivo anche oggi le sensazioni che quelle stesse parole però mi procuravano. E le lezioni che ho imparato. Tipo so che non mi piacciono mai le generalizzazioni.Mai.

Rifuggo da tutto ciò tenti di incasellare, ingabbiare, imprigionare esseri umani nei recinti dei nostri piccoli, finitissimi pregiudizi.
Mi adopero per evitare di utilizzare contro chicchessia quelle barriere comunicative che mi sono valse un gran bel voto alla tesi di un master.

Le conosco tutte perché le ho sviscerate mentre le studiavo, sforzandomi di raccontare esempi che facessero comprendere quanto sia facile alzarle e quanto difficile se non impossibile buttarle giù una volta erette. Quanta fatica a scardinare. E quanta fatica per chi le subisce.

Perché ad un certo punto quei pregiudizi prendono il sopravvento e noi stessi non riusciamo più a distinguere ciò che siamo da ciò che veniamo accusati di essere.

Ci comportiamo come veniamo descritti anche se sappiamo che non corrisponde a verità. Ma crediamo di doverlo fare, perché in fondo se è quello che gli altri si aspettano da noi, forse hanno ragione

Le categorie, queste nemiche. Che se fossimo Aristotele o Kant ci potremmo costruire la nostra fortuna, ma diversamente possiamo farne a meno.

Dovremmo. Che poi, anche qui. Usare il condizionale è una spinta gentile che però sa di giudizio e indispettisce. “Sai, dovresti dire così…” irrita l’interlocutore e allontana dal dialogo costruttivo.

Mai ho scritto, ad esempio per questo, una riga contro gli uomini, così, per pura  accademia. Sfido a trovarla. Perché credo ciecamente nel fatto che davvero le categorie non abbiano senso e che i risultati, di qualunque tipo, si raggiungano grazie all’impegno di tutte le persone, e non solo di chi è direttamente toccato dal problema.

In soldoni le donne non possono risolvere da sole tutti i miliardi di gender gaps nei quali incappano nella loro vita. Discriminazioni, offese, dimenticanze, palpatine,

ammiccamenti, allusioni, battutacce, esclusioni. Violenze psicologiche, fisiche, sessuali.

Generalizzazioni usate per deridere, per affermare quella specie di piccolo potere che sopperisce a ciò che ognuno di quegli omini che fa così, sente di non detenere. Di non possedere.

E lo percepisci, non solo nel macro, laddove continuiamo a contare femminicidi, sentenze che lasciano a desiderare, frasi che perpetrano vittimizzazioni secondarie crescenti e da manuale.

Leggiamo di giornalisti che commentano male e poi se la prendono con chi segnala; di giudici che scrivono che l’omicida “amava troppo” e la vittima era “disinibita”; di giudici, ancora, che decidono sulla mancanza di concupiscenza di chi infila una mano nelle mutande altrui, peccato solo che “altrui” le indossasse, quelle mutande.

Lo percepisci anche nel quotidiano, ed è questa una cosa che fa molta paura alle donne. E qui la generalizzazione ci sta tutta.
Tutte abbiamo paura e non capiamo cosa succeda. Eppure ne parliamo, svisceriamo, pianifichiamo, programmiamo.
Allora come mai, ci chiediamo, c’è questa esacerbazione? Dove ci inceppiamo?
Ci penso tanto, e la mia risposta è che forse il gap, uno dei tanti, è nel modo in cui lo comunichiamo.
Parliamo agli uomini in due modi, e probabilmente entrambi sono sbagliati.
Il primo è parlare agli uomini con lo stesso linguaggio e le stesse modalità che usiamo con le donne. Peccato che quasi sempre premettiamo che siamo diversi, ed è vero. Sacrosanto.
Io non posso riferirmi ad un uomo parlando come con una mia amica. Non funziona. Devo cambiare termini, non dare per scontate cose che per me lo sono, devo sottolineare aspetti che mai guarderei e evidenziarne altri affinché diventino visibili. È difficile? Sì, ma non impossibile. Non confondiamo questo con quegli allisciamenti che fanno certe donne a certi uomini che se li fanno fare.
Qui diciamo, o meglio io dico, che se è vero come è vero che bisogna adeguare il linguaggio al destinatario per essere compresi, perché non lo facciamo quasi mai con gli uomini ai quali però rimproveriamo di non capirci?
Il secondo errore è la generalizzazione. Se giustamente non accettiamo che gli uomini si riferiscano alle donne per stereotipi, dobbiamo evitare di fare la stessa cosa con loro.
“Gli uomini sono…”… “Gli uomini fanno…”
Non va bene. Soprattutto se a questo segue l’osservazione, il rimprovero, la recriminazione, l’accusa.
Senza tralasciare il fatto che io non posso accusare tutta una categoria per qualcosa che appartiene ad una parte di essa, non è giusto. Eppure capita che accada, e aggiungo anche parlando con i giovani sui quali spesso ricadono le colpe dei padri, anche quando sono diversi.
E questo si aggiunge ad una oggettiva difficoltà nel comunicare, uomini con uomini, donne con donne, uomini con donne. Periodi storici complicati e politically correct ci mettono il carico, e parlare e ascoltare diventa un’impresa.
Questa è un’assunzione di responsabilità. Un tentativo di conciliazione. Un’analisi obiettiva e generosa che nulla toglie al momento complicato che le donne vivono e che è intellettualmente onesto riconoscere per poter porre rimedio alle discriminazioni e alle violenze.
Uomini e donne. Che non è una trasmissione televisiva, ma la strada maestra da percorrere insieme.

Simonetta Molinaro, 23 luglio 2023