“Una lacrima di tulle che fa capolino da un trionfo di cachemire”
Aspettavo curiosa le riviste che Vittorio il giornalaio teneva da parte per mamma. Riviste “patinate” si chiamavano. Cose da donne. Articoli pieni di informazioni e consapevolezza, dove guardare le foto di moda era solo la scusa per non mancare un appuntamento.
Anche perché le pagine dedicate ad abbigliamento e accessori erano poche rispetto al totale, inserti a metà giornale dove più che altro alla fine guardavi la modella, solitamente imbronciata o assorta o comunque triste.
Le modelle sorridenti non erano previste, per essere bella e vestirti bene dovevi soffrire, ce lo hanno insegnato le nonne, che però erano costrette in busti e corsetti, e non hanno conosciuto la morbidezza del modal.
Mi chiedevo poi, nell’ingenuità dell’infanzia, perché non si capisse mai un tubo di come fossero questi vestiti. Si intravedeva una manica, un bottone, un collo. Uno scorcio di gonna svolazzante inquadrato di sguincio e rigorosamente su una spiaggia d’inverno o tra grattacieli e semafori metropolitani. Rarissimo che ci fosse una visione d’insieme, per avere la quale dovevamo affidarci all’immaginazione suffragata dalla didascalia che accompagnava la foto.
“Una lacrima di tulle che fa capolino da un trionfo di cachemire“.
Questa divenne una delle mie preferite.
Come può un trionfo partorire una lacrima? Chiesi a mia madre che conservava tutti i numeri di quelle riviste che ancora oggi esistono.
“Molto probabilmente una lacrima di gioia -mi rispose- o forse di fatica, perché dietro un trionfo c’è inevitabilmente molto lavoro”.
La risposta mi piacque ancor più della frase e iniziai ad usare in maniera strutturata le mie risorse intellettive dando forma e sostanza non solo ai sogni, ma anche a quegli scorci di cose illuminate da luci sapienti che, ho scoperto dopo, tante volte erano opere di fotografi già famosi o che poi lo sarebbero diventati. Erano foto d’autore, questo è. Erano loro la forma d’arte, più dei vestiti che immortalavano.
E quelle fotografie, spesso in bianco e nero, lasciavano presagire colori che venivano indicati come verde sottobosco o blu pervinca, quando non indaco o rosso cardinale. Che oggi non sapremmo neanche descrivere perché le immagini hanno preso il posto delle parole e quando vogliamo “quel” colore ci basta Google e per fortuna esiste Pantone, sdoganato dalle ferramenta e antesignano delle palette, che oggi conosciamo solo quelle degli ombretti, beata gioventù moderna.
Mi piaceva un sacco immaginare quello che non era evidente ma si intuiva, che cambiava di tono e di sfumatura (ben prima delle più famose cinquanta) a seconda del nostro umore e del contesto nel quale chi guardava si muoveva.
Coltivavo l’immaginazione usando la fantasia, che la prima è forse l’upgrade della seconda, perché va a pescare tra le emozioni e se ne fa ambasciatrice e custode, a volte silenziosa a volte no. Indispensabile per guardare oltre e attraverso. Per creare proiezioni e ponti.
Per vedere cose che non esistono ma esisteranno. Per costruire reti ben oltre quelle virtuali dell’Internet. Per tessere relazioni grazie a fili che si tendono ma non si spezzano, rocchetti di bellezza, fili che io immagino immancabilmente rouge come Ladybug Red Pantone 1807, ma voi potete pensarli come vi pare.
E va tutto bene.
A cura di Simonetta Molinaro
Spigolature di moda – II capitolo